Durante È sempre Cartabianca, il presidente della Federazione Amici di Israele Eyal Mizrahi ha rivolto a Enzo Iacchetti – attore e conduttore televisivo – una frase che ha segnato il dibattito:
“Definisci bambino.”
Non era un errore, non era un lapsus. Era una scelta linguistica precisa, con un’intenzione che non è mai arrivata a destinazione.
Ipotizziamo, nelle migliori intenzioni, che Mizrahi volesse dire questo:
“Anagraficamente restano bambini, ma se un bambino impugna un’arma e la punta contro un soldato, in quel momento diventa un soldato anche lui. E molti di quelli che chiamate ‘bambini’ hanno un’esperienza bellica che nessun adulto medio in Europa potrà mai immaginare.”
Eppure, anche se questa fosse stata davvero l’intenzione, resta il punto: quelle parole hanno trasformato un possibile ragionamento in un disastro comunicativo, disumano e inaccettabile.
Non è questione di ragione o torto. È questione di umanità.
La responsabilità non si misura nel vincere un dibattito, ma nella consapevolezza dell’impatto che hanno le parole: su chi ti ascolta, sul contesto che si genera, sulle emozioni che inevitabilmente provochi.
A volte “vincere” un dibattito significa proprio questo: mantenere la dignità andando oltre le proprie ragioni ideologiche.
Dire “definisci bambino” nel contesto attuale produce due effetti devastanti:
- Scarsa responsabilità linguistica → ignori l’effetto immediato e devastante che quella frase ha su chi ascolta.
- Riduzione della vita umana a ideologia → trasformi un valore universale – la vita di un bambino – in una pedina di confronto politico.
La domanda diventa: quando guardi, vedi un bambino o vedi un soldato?
Io vedo una vita umana costretta a essere etichettata, strumentalizzata a uso e consumo di chi fa propaganda.
La guerra non ha mai prodotto un linguaggio neutro: la narrazione è sempre di parte, perché fa parte della natura stessa dell’essere umano.
Le tre responsabilità nelle parole
- Gestire le emozioni
Nulla ti fa perdere credibilità più della perdita dell’autocontrollo.
Ma la domanda è: chi ha davvero perso il controllo?
Il paradosso è che, nella sua reazione, Iacchetti ha mostrato più umanità di Mizrahi, che quelle parole le ha pronunciate. Perché puoi sembrare calmo, ma se le tue frasi tolgono dignità alla vita, di umano non resta nulla. - Scegliere le parole
Le parole non sono mai “solo parole”. Accendono, dividono, muovono masse.
La storia lo dimostra: “Liberté, égalité, fraternité” ha acceso una rivoluzione; “Arbeit macht frei” ha trasformato il linguaggio in disumanizzazione.
Ogni parola apre o chiude, eleva o annienta. Non spiega: lascia un segno. - Mantenere l’obiettivo
Comunicare non è avere ragione, ma creare possibilità e libertà.
Quando ti concentri solo sul dimostrare di avere ragione, smetti di ascoltare e trasformi il dialogo in una battaglia sterile.
Il punto non è vincere una guerra verbale, ma difendere valori nel rispetto reciproco.
La profondità del linguaggio
Primo Levi ci ha insegnato che la disumanizzazione comincia quando togli all’altro la sua definizione più semplice: l’essere umano.
Hannah Arendt ci ha ricordato che “la banalità del male” si nutre anche di linguaggio vuoto, burocratico, capace di congelare la vita in categorie astratte.
“Definisci bambino” rientra in questa logica: un modo di spogliare la realtà della sua umanità per ridurla a definizione concettuale.
La mia opinione
Umanamente capisco la reazione di Iacchetti, e la condivido.
Ma il punto non è la sua reazione. Il punto è che le parole di Mizrahi hanno oltrepassato un limite, aggiungendo dolore al dolore e trasformando un tema universale in un artificio linguistico.
“Un bambino non si definisce. Si protegge.
Se devi “definirlo”, hai già perso.
Un bambino è una vita. Punto.”
Eppure, leggendo le reazioni e i commenti sui social, resto colpito: la stragrande maggioranza delle persone è rimasta incastrata nell’eterna dicotomia del chi ha ragione e chi ha torto, schierandosi da una parte o dall’altra.
Ed è qui che nasce la riflessione. Ancora una volta, la comunicazione mediatica ci ha fatto cadere nella trappola delle barriere ideologiche, le stesse che alimentano divisioni e conflitti. Se leggendo questa vicenda – o anche solo questo articolo – l’unico filo del tuo pensiero è stato stabilire chi avesse ragione e da che parte stare, lo capisco, è umano.
Ma è proprio questo il punto.
È lo stesso meccanismo con cui si generano i conflitti e iniziano le guerre: quando il dialogo perde di vista l’umanità e il rispetto, e si riduce a una gara per avere ragione.
Buona settimana,
Simone