Hai mai pensato a cosa significhino per te le parole “questo è il mio carattere” o più semplicemente “sono fatto così”?

Quando dici a te stesso: “sono un romantico” ad esempio, stai descrivendo una serie di comportamenti e situazioni della vita nelle quali appunto ti “comporti” in modo che definisci romantico.

Quando parliamo di carattere infatti, facciamo riferimento ad una specifica serie di tratti distintivi e rappresentativi del nostro “comportamento”. Per comodità di linguaggio e rappresentazione di questi stessi comportamenti usiamo delle parole per etichettarli, una di queste è proprio “carattere”.

Ho scelto di scrivere questo articolo, per condividere alcune considerazioni in merito a questo argomento e suscitare utili spunti di riflessione.
Molti dei limiti e delle difficoltà che incontriamo nella vita, derivano proprio dal fatto che “confondiamo ciò che siamo con ciò che facciamo”.

E’ normale che accada. Lo “scopo” delle parole è proprio quello di rappresentare una serie di esperienze che stiamo vivendo, ed è proprio attraverso il linguaggio che ci siamo conquistati la possibilità di descriverle e comunicarle agli altri.

Quindi le parole rappresentano perfettamente i nostri pensieri? Purtroppo no.
Il linguaggio non è in grado di rappresentare un esperienza nella sua completezza.
Pensa ad esempio, di dover descrivere un tramonto in riva al mare ad una persona che non ha mai vissuto questa esperienza, o di descrivere cosa significa lanciarsi con il paracadute a chi non lo ha mia fatto. Per quanto bravo tu possa essere nella descrizione, per quanto ricca di dettagli e informazioni, le tue parole non saranno mai in grado di trasferire “l’emotività” e “l’essenza” di quell’esperienza.

Ed è per questo motivo che nessuno di noi impara con il solo uso del linguaggio.
Il carattere distintivo dell’apprendimento umano è puramente esperienziale.

Non conosco persone che abbiano imparato a nuotare da un libro, né a parlare la propria lingua studiandone unicamente la sintassi. Impareresti meglio l’inglese vivendo a Londra o in Italia seduto a casa sul divano studiandolo da un libro?

Torniamo a noi.

Quando dico ad una persona: “sei stupido”, la mia intenzione è di “etichettare” determinati comportamenti e azioni che vedo, ascolto e percepisco come non appropriati definendoli “stupidi”.

Ma se quello che io ritengo “essere stupido” è il comportamento, il “fare”, per quale motivo non valuto il comportamento ma giudico la persona?

Il buon Shakespeare disse “Essere o non essere” ed è questo il vero problema. Noti come il dire “sei uno stupido” o “hai fatto una cosa stupida” cambi completamente l’impatto emotivo?

Immagina un genitore rimproverare il proprio figlio, con tutte le buone intenzioni, utilizzando una linguistica di questo tipo, quale sarà “l’impatto”?

Se il problema che individuo è nel comportamento dovrei limitare la mia descrizione unicamente a quell’aspetto.

Se “Il problema è ciò che fai” la percezione sarà diversa. E’ più semplice cambiare ciò che stai facendo o quello che sei?

Molte delle limitazioni che sperimentiamo derivano proprio dall’utilizzo del nostro linguaggio e dall’impoverimento che esso crea.

Da una parte rappresenta una delle nostre più grandi conquiste e dall’altra una delle nostre più grandi limitazioni. Non riusciamo a rappresentare al meglio il nostro mondo interno attraverso le parole e rischiamo di rimanerne imprigionati.

E’ come se stessimo dicendo a noi stessi che non possiamo farci nulla in quanto il problema “è dentro di noi”.

Non a caso uno dei nostri più grandi limiti non è dato da ciò che crediamo più o meno di “essere” ma dalle cose che non abbiamo ancora preso in considerazione di poter “fare”. (la seconda parte della citazione deriva da una frase del Dott. Richard Bandler co-fondatore della PNL che per correttezza voglio riportare)

Se non hai trovato le giuste motivazioni per fare qualcosa non significa che “sei pigro” ma semplicemente che non hai trovato ragioni abbastanza forti per ottenere quello che vuoi. Ma la pigrizia non fa parte certo del tuo DNA. Quando dici a te stesso “non sono costante” stai letteralmente mentendo. La “costanza” non esiste. E’ semplicemente un modo per dire che non hai obiettivi che stimolano a “fare” delle cose.
Ti lavi denti tutti i giorni? Vai al lavoro tutti i giorni? Mangi tutti i giorni? Questi sono un semplice esempio della tua costanza nel “fare” qualcosa.

Ti invito a considerare le implicazioni più profonde di queste mie affermazioni e di verificarle attraverso la tua esperienza senza accettarle come verità assoluta o un dogma.

Quando esprimi un giudizio come “Marco è timido” chiediti anche: “come faccio a saperlo”? Per rispondere hai una sola possibilità: descrivere un set di esperienze e comportamenti che rappresentano quello che per te “timido” significa. Ad esempio, Marco è timido perché quando parla con le ragazze diventa rosso, oppure perché sento la sua voce tremare o posso percepire le sue mani sudate.

Ma se Marco imparasse a gestire meglio il suo stato d’animo e non diventasse più rosso nel parlare con le ragazze diresti anche che ha cambiato carattere?

Questo perché l’aggettivo “timido” rappresenta esperienze diverse tra loro rendendo statico ciò che non lo è. Chiedi a persone diverse come fanno a sapere quando una persona è timida. Nota come le loro descrizioni variano dalle tue.

Allo stesso modo utilizziamo descrizioni comportamentali più o meno utili. Quando usiamo il verbo “essere” dobbiamo fare molta attenzione. Sia che si tratti di un’altra persona o di noi stessi quando lo usiamo stiamo incorporando all’interno alcuni comportamenti e limiti che essi rappresentano. Ma è molto diverso dire: “sto affrontando alcune problematiche con l’alimentazione” piuttosto che “sono anoressica o sono bulimica”.

Anoressia o bulimia sono “comportamenti” non “identità”.

Le parole che utilizziamo per descrivere la nostra esperienza diventano la nostra esperienza e ancor più importante possono crearla. Ma noi non siamo i nostri comportamenti, siamo molto più di questo.

Conosci Gillian Lynne? E’ un attrice teatrale, ballerina e coreografa inglese nota per aver firmato le celebri coreografie dei musical di Andrew Lloyd Webber e T.S. Eliot “Cats” e il leggendario musical di Broadway “Il Fantasma dell’Opera”. Parliamo di una delle più grandi coreografe di tutti i tempi.

Nata nei primi anni venti in un sobborgo di Londra, Gillian era una bambina molto vivace e attiva al punto da destare molte “preoccupazioni” per gli insegnanti dell’epoca. La scuola stessa scrisse una lettera ai genitori della piccola Gillian con scritto: “Pensiamo che sua figlia abbia un disturbo dell’apprendimento”. Gillian non riusciva a concentrarsi ed era molto irrequieta. Oggi diremmo che Gillian soffre di ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Ma a quel tempo l’ADHD non era ancora stato inventato e di conseguenza non era una diagnosi disponibile per le persone che quindi non sapevano di poterla avere.

Non esisteva una parola per “etichettare” Gillian, una piccola bambina di 8 anni.

La madre portò allora la figlia da uno specialista e fu messa a sedere con le mani in tasca nello studio per 20 minuti nei quali il dottore e la madre parlavano di tutti i problemi che aveva a scuola. Fu così che il dottore si sedette a fianco a Gillian dicendole: “Ho ascoltato tutte queste cose che tua madre mi ha detto e ho bisogno di parlarne in privato con lei per qualche minuto. Aspettaci qui torneremo subito”.

Mentre uscivano il dottore accese la radio che stava sopra la scrivania e sulla porta disse alla madre: “Stia qui e osservi.” e mentre lasciavano la stanza Gillian iniziò a muoversi a tempo di musica. Il dottore e la madre la osservarono per qualche minuto e poi disse:” Signora Lynn, sua figlia non è malata, è una ballerina, la porti ad una scuola di ballo”.

Cosa sarebbe accaduto se Gillian Lynne fosse nata oggi? L’avremmo etichettata come “iperattiva” e probabilmente non sarebbe mai diventata ciò che è.

Una parola può cambiare la tua vita.

Ed è questo il punto centrale di tutto. Etichettiamo per nostra personale comodità le persone per poterle chiudere e rappresentare in un mondo fatto a nostra immagine e somiglianza.

Dovremmo aiutare noi stessi e gli altri ad avere più scelte e invece siamo i primi a toglierle.

Abbiamo bisogno di capire e controllare la situazione e renderla comprensibile per noi. Facendolo non solo tendiamo ad esprimere un giudizio sulla persona, che risulta in ogni caso soggettivo, ma soprattutto limitiamo la vita di quelle persone e la nostra.

Pensa a cosa succede ancora oggi in nome di questa tanta agognata “normalità” di cui sentiamo tanto parlare. Discriminiamo le persone, per religione, sesso, ideologia, colore della pelle. Facciamo la guerra in nome della “normalità”.

Ci aspettiamo che le cose siano normali in funzione di standard personali. Vogliamo “essere normali” e lo pretendiamo dagli altri augurandoci lo siano anche i nostri figli.

Ma il mondo come lo conosciamo oggi non si è certo evoluto grazie alla normalità, ma esattamente il contrario. Le rivoluzioni culturali, scientifiche e tecnologiche non sono certo state fatte da persone “prevedibili” e “normali” ma da quelli che definiamo “geni”.

Persone che hanno pensato fuori dagli schemi, sono usciti dalla “scatola” e hanno fatto della normalità qualcosa di straordinario. Persone come Thomas Edison, Leonardo Da Vinci, Albert Einstein, Steve Jobs, Martin Luther King, Nelson Mandela, Mahatma Gandhi e la stessa Gillian Lynne e molte altre hanno vissuto rifiutando di limitare la loro esistenza alla “normalità”. E’ la cosa più straordinaria è che ognuno di noi ha “un genio” dentro che aspetta di venire allo scoperto, di uscire e liberarsi per esprimere la sua essenza.

Ma non potrà trovare spazio o vita se lo imprigioniamo in frasi come: “non posso farci nulla se sono fatto così”. Non scoprirai mai chi sei se continui a dire “questo è il mio carattere”.

Sii te stesso oltre il linguaggio che ti rappresenta, esci dagli schemi che forse altri hanno costruito per te. Scopri come puoi essere tutto ciò che desideri a patto tu sia disposto a fare qualcosa per migliorare la tua condizione personale.

Una vita felice è una vita ricca di scelte, scelte che non avrai mai finché tu per primo costruirai delle catene chiamate parole per imprigionare te stesso e gli altri limitando proprio queste scelte.

Buona settimana, Simone